Come si impara l’educazione sentimentale?

di Umberto Galimberti
La risposta del filosofo, psicoanalista e docente universitario italiano ad una lettera di un insegnante (da “D La Repubblica” n. 855 del 31.8.2013 “Lettere a Umberto Galimberti”)


Sono un insegnante di educazione fisica nella scuola superiore. Lei, negli anni passati, parlando di educazione e del compito degli insegnanti, ha fatto riferimento all’importanza per i docenti, di occuparsi della educazione affettiva e sentimentale, argomento trascuratissimo nelle scuole in quella delicata fase della vita dell’uomo che è l’adolescenza. Sinceramente non ho capito come attuare questa benedetta educazione affettiva e sentimentale e, se le fosse possibile, vorrei da lei indicazioni e suggerimenti in merito (argomenti da trattare, libri da leggere ecc.)
Vito Turco

Un giorno il filosofo Miguel Benasayag, insieme allo psichiatra Gérard Schmit, aprì a Parigi uno sportello per ascoltare i giovani che accusavano un disagio, un disadattamento, una demotivazione, una sofferenza, e si sorprese nel constatare che alla sua domanda: “Che cosa ti fa soffrire?” i giovani non sapevano dare una risposta. Si persuase allora che oggi la sofferenza dei giovani non è solo “psicologica”, ma anche e soprattutto “culturale”.

I giovani non sanno che cosa “sentono” né quando sono felici, né quando sono angosciati. Non conoscono i nomi che caratterizzano i sentimenti che provano. E come fanno a difendersi o a mettere in atto strategie di compensazione se non sanno neppure di che cosa soffrono? Su questa sua esperienza Benasayag scrisse un libro che le consiglio di leggere: “L’epoca delle passioni tristi” (Feltrinelli).

Ma dove si imparano i sentimenti? Certamente nei primi anni, in forma appena abbozzata, in famiglia, ma soprattutto a scuola, attraverso quella maturazione che conduce dall’impulso all’emozione e dall’emozione al sentimento.

Questo percorso si chiama “educazione” e si distingue dall'”istruzione” che è una pura trasmissione di saperi, la quale, a sua volta, diciamolo subito, riesce solo se i maestri e i professori sono capaci di aprire agli studenti le porte del cuore, come ciascuno di noi ha potuto verificare quando studiava con piacere e passione preferibilmente le materie impartite da insegnanti capaci di accedere alla sfera emotiva dei loro studenti. Del resto già Platone avvertiva che si apprende sostanzialmente per via “erotica”.

Ma vediamolo, il percorso che dall’impulso conduce all’emozione e da ultimo al sentimento. L’impulso è la più primitiva delle cariche emotive e ha come linguaggio il gesto. Gli episodi di bullismo sono l’esempio classico di ragazzi la cui maturazione emotiva si è fermata a questo stadio. Punirli, sospenderli dalla scuola non serve a niente, perché non sono in grado di distinguere con chiarezza cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è ingiusto. Questi ragazzi vanno “educati” cioè condotti (e-ducere) dall’impulso all’emozione, che è la risonanza emotiva che una mia parola, un mio gesto produce in me, in modo che, grazie a essa, io possa avvertire la differenza che a livello impulsivo non colgo.

Kant diceva che la differenza tra bene e male possiamo anche evitare di definirla, perché ciascuno la “sente” naturalmente da sé. Oggi non è più così, se è vero che alcuni ragazzi non distinguono tra corteggiare una ragazza o aggredirla sessualmente, tra parlar male di un professore o prenderlo a calci, tra non amare lo straniero o bruciarlo mentre dorme su una panchina.

Dall’emozione si passa al sentimento che non è un dato “naturale” ma “culturale”. I sentimenti si imparano attraverso modelli, storie, narrazioni. I miti greci, per esempio, descrivevano con Zeus il potere, con Atena l’intelligenza, con Apollo la bellezza, con Afrodite la sensualità, con Ares l’aggressività, con Dioniso la follia. Attraverso i miti si prendeva contatto con la dimensione sentimentale che guida la condotta degli uomini.

Oggi non possiamo più tornare ai miti, ma abbiamo il serbatoio di conoscenza dei sentimenti umani rappresentato dalla letteratura, frequentando la quale, si impara che cos’è il dolore, la gioia, l’entusiasmo, la noia, la compassione, la disperazione, in tutte le forme e le articolazioni in cui questi sentimenti si declinano.

Oggi le nostre scuole, per adeguarsi alla cultura tecnologica, tendono a marginalizzare la letteratura, per cui avremo sempre di più tecnici senz’anima, ma soprattutto uomini che conducono la propria vita senza la più pallida idea di sé e dei sentimenti che li abitano.


[D La Repubblica n. 855, 31 agosto 2013 “Lettere a Umberto Galimberti”]

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Il mondo vuole delle donne trasparenti

Il mondo vuole delle donne trasparenti
(Laurie Penny, Internazionale, 11 marzo 2018)

Facciamo crescere le ragazze in un tornado d’immagini di bellezza inarrivabile

Attraversiamo una crisi, che sarebbe presa più seriamente se non riguardasse quasi solamente le donne. I ricoveri per disordini alimentari sono quasi raddoppiati in sei anni, mentre genitori e pazienti esprimono il loro strazio nel cercare cure che siano anche solo minimamente adeguate. In tutto il paese, in tutto il mondo, donne e ragazze si autoimpongono di fare la fame, a volte fino a morirne. Che vogliamo fare?

La settimana della consapevolezza dei disturbi alimentari si è appena conclusa, e ancora una volta i giornali hanno finto di chiedersi cosa mai abbia spinto delle sciocche giovani donne ad avviarsi verso un lento suicidio, corredati da sensuali foto di magrissime modelle svestite in posa per l’obiettivo dei fotografi, oltre che da una serie di distratte banalità sul fatto che le ragazze debbano in realtà lavorare sulla loro “immagine corporea” e, se possibile, smettere di leggere tutte queste riviste.

Quando ero un’adolescente anoressica pronta per essere ricoverata, leggevo quest’immondizia per avere suggerimenti su cosa fare. Come ha scritto Hadley Freeman, “il problema dell’anoressia è il suo essere così fotogenica”, l’ideale per l’economia mediatica della misoginia. Buona parte di questo sfoggio di “consapevolezza” ci aiuta a capire i disordini alimentari esattamente quanto, per esempio, un abbonamento a riviste porno come Nuts ci aiuta a capire il sesso: cioè per niente.

È solo l’inizio
Perché le cose stanno peggiorando. Le statistiche del servizio sanitario nazionale britannico (Nhs) mostrano che i ricoveri per disturbi come anoressia e bulimia sono stati 13.885 tra l’aprile 2016 e l’aprile 2017, una cifra che comprende duemila ragazze di meno di 18 anni ricoverate per anoressia grave. L’anoressia è, tra i disturbi mentali, quello con il più alto tasso di mortalità.

Ed è solo l’inizio. Si stima che 1,25 milioni di persone nel Regno Unito abbiano un disordine alimentare. Donne e ragazze sono l’89 per cento di queste persone. Non si tratta solo di una questione di sopravvivenza. Il punto sono gli anni trascorsi torturandosi inutilmente e dolorosamente, sprecando il proprio tempo, la propria energia e rovinandosi la salute. Candida Crewe, nel suo libro autobiografico Eating myself , la definisce “la malattia della donna comune”. Sappiamo che sta accadendo e la cosa non ci turba più di tanto.

Proprio così. Nessun altro sembra disposto a dirlo, quindi lo farò io. Se i disturbi alimentari fossero malattie tipiche degli uomini, invece che delle donne, sarebbero presi più seriamente e si troverebbero cure adatte. Anzi, voglio spingermi oltre: credo che da un certo punto di vista, l’autodeprivazione alimentare e l’ossessione per la magrezza, l’immagine del corpo e l’autocensura femminili siano state normalizzate a tal punto nelle nostra società, che è impossibile non convincersi che queste ragazze abbiano fatto la scelta giusta, sbagliando semplicemente nell’essersi spinte “troppo oltre”.

Diciamo alle ragazze che non hanno il diritto di conquistarsi i loro spazi nel mondo e poi siamo confusi quando smettono di mangiare. Facciamo crescere i nostri figli in una cultura totalmente ossessionata dal controllo dei corpi femminili e poi ci stupiamo quando vogliono riprendersi parte di questo controllo tramite atti privati e violenti di ribellione passiva-aggressiva.

Come ha scritto Naomi Wolf in Il mito della bellezza, “una cultura fissata con la magrezza femminile non rappresenta un’ossessione per la bellezza femminile, bensì per l’obbedienza femminile. La dieta è il più potente sedativo politico della storia delle donne: una popolazione placidamente folle è più facile da gestire”.

Gli aperti e sinceri elogi che le ragazze ottengono per il loro uccidersi lentamente in pubblico è direttamente proporzionale alla quantità di vergogna e stigmatizzazione che si riversa sulle donne perfettamente in salute che si trovano a essere anche solo leggermente sovrappeso.

Ogni singola ora
Non credo sia fuori luogo suggerire che queste cose sono legate. E non parlo per vaghe astrazioni: esistono solidi e fondati dati che provano come le donne siano penalizzate finanziariamente e socialmente quando prendono peso, e premiate quando lo perdono. Molto più di quanto accada agli uomini. Uno studio pubblicato dal Journal of Applied Psychology nell’autunno 2010 mostrava che le donne “molto magre” guadagnano circa 22mila dollari più delle loro omologhe di peso medio, mentre l’essere appena sei chili sovrappeso mina seriamente le possibilità di promozione o la sicurezza dell’impiego di una donna.

Uno studio più recente ha rivelato che solo il 15 per cento dei dirigenti incaricati di un’assunzione, messo di fronte a fotografie di donne di peso diverso, valuterebbe la possibilità di assumere quella più in carne per un ruolo di responsabilità. Statistiche come questa rendono evidente quel che quasi tutte le donne sanno nel loro intimo: che il mondo vuole che siano sempre più piccole, sempre più magre, che il mondo vuole che esse desiderino meno, che valgano meno.

Non accade solo sul posto di lavoro, a meno di essere onesti e di ammettere che alle donne e alle ragazze è richiesto di lavorare nell’immenso stage non pagato dell’accettazione femminile ogni singola ora della loro vita. Sono riluttante a parlare della mia esperienza personale, perché non voglio cadere nella retorica anodina e alienante del sopravvissuto solitario, così frequente quando si parla di disordini alimentari.

Ciononostante, l’anno scorso ho avuto una piccola recidiva, ricadendo nelle cattive abitudini mentre tentavo di riprendere faticosamente il controllo della mia vita, in un momento nel quale su di me si riversava una serie di problemi da primo mondo. I miei amici intimi e la mia famiglia, notando quanto peso avessi perso, erano piuttosto preoccupati.

Tutti gli altri erano felicissimi per me. Mi sentivo debole, fragile e triste, ed ero premiata per questo. Ho passato un po’ di questo tempo frequentando vari uomini e ognuno di loro era ossessionato dalla mia improvvisa magrezza. Uno non smetteva di contare le mie costole. Un altro cercava d’indovinare il mio peso mentre facevamo l’amore, sottostimandolo di nove chili, perché apparentemente gli uomini non sanno nulla su come funzionano i corpi dai quali sono ossessionati.

Adesso mi sento molto meglio, in parte perché ho molto più controllo e potere sulla mia vita di quanto ne avessi quando mi sono ammalata per la prima volta a 15 anni, e poi una cosa che ho notato è che i millennial amano decisamente poco delle costole visibili.

Ho deciso di mettere a frutto questo controllo e di prendermi maggiormente cura di me stessa, anche se in realtà non avrei voluto davvero, poiché di questi tempi ho in realtà un sacco di cose per le quali vivere, un sacco da scrivere, e un sacco di cose da fare che non possono essere fatte quando si è debole, affamata e mezzo morta. Ho smesso di fingere di essere “semplicemente in buona salute”, adottando una visione più olistica di cosa significhi la salute, giusto in tempo per evitare danni a lungo termine. Sono stata fortunata.

Non tutti lo sono altrettanto. Le persone in grave crisi – come me quando ero molto più giovane e molto, molto più malata – hanno bisogno di serie cure ospedaliere. Cure che troppe persone con disturbi alimentari non ottengono mai, o non abbastanza, poiché il nostro sistema per la salute mentale viene sistematicamente distrutto proprio ora che ne abbiamo più bisogno che mai.

Una proposta radicale
Ma come possiamo amare i nostri corpi e prendercene cura quando il resto del mondo fa l’esatto opposto? Certo, insegnare alle donne e alle ragazze ad amare i loro corpi e a prendersene cura è ancora una proposta radicale in una società che provoca e al contempo sfrutta l’odio che proviamo verso noi stessi. Ma i singoli sforzi individuali di provare amore verso noi stessi non bastano quando il problema è strutturale. Il problema è il sessismo.

E la risposta è il gaslighting. Facciamo crescere le ragazze in un tornado d’immagini di bellezza inarrivabile, le sottoponiamo senza sosta a una serie di dimostrazioni con le quali le convinciamo che saranno penalizzate se non avranno un certo aspetto. Lasciamo costantemente intendere che se crescendo diventeranno qualcos’altro non varranno assolutamente niente a meno di non conformarsi a un’idea di bellezza che è, letteralmente, magra al punto da non permettere a un corpo umano di respirare.

Gli facciamo pesare, giorno e notte, il fatto di vivere in un corpo che è femminile o queer. E poi, quando sviluppano disturbi alimentari alziamo le spalle e diciamo: accidenti però, queste ragazzine stupide, perché non si mangiano un panino?

Dire alle donne e alle ragazze del ventunesimo secolo che hanno un problema con la loro immagine del proprio corpo è un po’ come dire alla vittima di un accoltellamento che ha un problema d’emorragia. Sì, lo sappiamo. E sappiamo che è probabilmente colpa nostra, che siamo state deboli e superficiali nel lasciarci accoltellare, e che se fossimo state più forti saremmo state in grado di richiudere le nostre arterie con la semplice forza di volontà, arrestando l’uscita di sangue. Ma nel frattempo sarebbe possibile, se non è chiedervi troppo, aiutarci a tamponare la ferita prima che ce ne andiamo alla ricerca di un po’ di giustizia?

Tutto questo mi rende assolutamente furiosa. È una cosa che avrei trovato difficile dire quando ero prigioniera dell’inferno dei disordini alimentari. Spesso è solo un modo di fare i conti con una rabbia che sembra troppo pericoloso esprimere, e che rivolgiamo verso il nostro corpo, controllando tutta la fame per quelle cose che, ci viene detto, non abbiamo il diritto di volere, come il cibo, una scopata, una briciola di maledetto rispetto, un posto sicuro nel mondo o solo il diritto di sfogarsi un po’.
Che poi sarebbe il motivo per il quale i disordini alimentari spesso colpiscono soprattutto le giovani donne. I ragazzi hanno più probabilità di esprimersi apertamente, per un sacco di motivi. Le ragazze si tengono tutto dentro.

Affanculo tutto questo: sono arrabbiata. Sono arrabbiata con lo stato che si rifiuta di prendersi cura dei giovani di questo paese sotto molti punti di vista, che distrugge qualsiasi speranza di un futuro sicuro, che li esclude dal sistema sanitario e gli nega un alloggio sicuro, che esige che lottino l’uno con l’altro per le briciole rimaste in un pianeta allo sfascio, e poi tagliano i fondi per i servizi pubblici di salute mentale che potrebbero salvarli dall’autodistruzione quando non ce la fanno più.

Sono arrabbiata con questa cultura che ha così paura della carne femminile, della fame femminile, delle donne che vogliono qualsiasi cosa e non solo quello per cui gli dicono di essere grate, che insegna ancora alle ragazzine a farsi più piccole, a tagliarsi a fette, a restringere i loro corpi e umiliare le loro ambizioni finché il loro spazio nel mondo si riduce.

Una questione politica
Sono furiosa per la tranquillità con la quale la società sembra guardare alle ragazze che puniscono e trascurano i loro stessi corpi, anche e soprattutto in nome dell’ossessione per la salute.

Sono arrabbiata per tutto il tempo e tutta l’energia che le ultime e intelligentissime generazioni sembrano ancora sprecare per odiarsi e danneggiare i loro corpi, come facevamo noi solamente in maniera leggermente più efficiente. Non sono arrabbiata con loro. Lo sono con il resto di noi perché non ci prendiamo più cura di loro. E più di tutto sono furiosa per la maniera in cui tutto questo è diventato normale.

Per la settimana della consapevolezza dei disordini alimentari, vorrei chiarire a tutti che i disordini alimentari sono una questione seria, politica e un chiaro segno del mondo incessantemente sessista, omofobo e brutalmente competitivo nel quale obblighiamo a crescere i nostri figli. I ragazzi lo sanno già, ma alcuni adulti sembrano averlo dimenticato.

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Il tabù del sesso – Presa diretta del 31/01/2016

Il tabù del sesso
(Rai, Presa diretta, 31 gennaio 2016)

Un viaggio tra gli adolescenti italiani e il loro rapporto con la sessualità, il sexting, il bullismo, la cattiva informazione sul sesso, le discriminazioni di genere, per scoprire se esiste in Italia il Tabù del sesso. A Presa Diretta tante storie e testimonianze inedite dei parenti di ragazzi vittime del bullismo e del cyber bullismo, il parere degli esperti, degli psicologi, dei ragazzi e dei genitori.

Perché nel nostro paese non si fa una buona educazione sentimentale e sessuale tra i ragazzi?

Le telecamere di Presa Diretta sono andate anche in Germania e in Olanda, paesi con modelli culturali ed educativi diversi dai nostri. In Germania l’educazione sessuale è materia obbligatoria in tutte le scuole. In Olanda “l’educazione multidisciplinare alla sessualità” comincia a 4 anni, sempre a scuola. Ed è il paese con la più bassa incidenza di gravidanze tra gli adolescenti d’Europa e l’età media più alta del primo rapporto sessuale, 17 anni.

Guarda la puntata:

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Contro la violenza di genere a scuola arriva l’educazione sentimentale

Contro la violenza di genere a scuola arriva l’educazione sentimentale
(Federico Marconi, L’Espresso, 13 agosto 2018)

Debutta nei licei del Piemonte l’ora per insegnare ai ragazzi le ragioni del cuore e della relazione tra i sessi

La donna? «Ama essere presa con violenza». «È nell’ordine della natura che le mogli servano i loro mariti». «La donna è fatta per piacere ed essere soggiogata». «La donna è un maschio menomato, un sacco vuoto, un individuo castrato». Quattro frasi che sembrano pronunciate in un becero discorso da bar o scritte in uno dei tanti post che tutti i giorni si possono leggere sui social network. Parole forti, dure, piene di disprezzo, sentite e risentite e che fanno parte della nostra quotidianità.

Ma se fossimo in un bar e assistessimo a questo scambio di battute, davanti non avremmo quattro persone qualsiasi. Ad affermare che la donna ama essere presa con la forza è Ovidio, il poeta latino le cui parole sono ancora oggi scritte dagli amanti nelle loro lettere e stampate all’interno dei cioccolatini. La seconda frase è di uno dei padri della Chiesa, Sant’Agostino. La terza di un altro grande pensatore europeo, Jean-Jacques Rousseau. L’ultima è invece del padre della psicanalisi, Sigmund Freud. Si potrebbe continuare all’infinito, citando le Sacre Scritture («Soggiacerai al potere dell’uomo ed egli dominerà su di te»), Euripide, San Paolo, Nietzsche, ma il risultato è sempre lo stesso: la connotazione della donna come essere stupido, diabolico, inferiore.
Connotazione che plasma la mentalità di tanti uomini che, consciamente o meno, finiscono per assorbire i precetti di un pregiudizio vecchio come il mondo. E che sfocia talvolta nella violenza e nel sangue: basti pensare che nel solo 2017 – stando al rapporto Eures – quasi 7 milioni di donne italiane hanno denunciato di aver subito violenza fisica e/o sessuale, 114 sono state vittime di femminicidio, una ogni tre giorni. In Europa il quadro non migliora: anzi, il tasso di violenza in Italia è tra i più bassi del continente. Se nello stivale è quasi una donna su tre a segnalare di aver subito abusi, nei Paesi del Nord Europa – secondo l’Agenzia per i diritti fondamentale dell’Ue – il rapporto diventa di una ogni due.

Un problema profondo che coinvolge e sconvolge una società, quella italiana ed europea, che piange e s’indigna ogni volta che salta fuori un nuovo fatto di cronaca, ma che poco si interessa alla prevenzione di questa ferita che ogni anno rischia di farsi più profonda.

Liberi dai pregiudizi

Ed è proprio per provare a trovare una cura che dal prossimo anno scolastico il Consiglio regionale piemontese e l’Associazione Filosofia in Movimento porteranno l’educazione sentimentale nei licei di Torino e di tutto il Piemonte. L’introduzione della nuova “materia”, che riprende il nome dal romanzo di Gustave Flaubert, è una novità assoluta nel panorama scolastico italiano, è stata fortemente voluta dal consigliere Gabriele Molinari e dal professor Paolo Ercolani, docente di filosofia dell’educazione all’Università di Urbino.

Un progetto inedito quello realizzato dalla coppia Molinari-Ercolani che supplisce la mancanza d’iniziativa delle istituzioni nazionali. Nel corso della passata legislatura la deputata di Sinistra Italiana Celeste Costantino aveva presentato una proposta di legge per l’istituzione di un’ora di educazione ai sentimenti alle medie e negli istituti superiori. Proposta, mai approvata, con cui si voleva dar seguito all’applicazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne del 2011. Con la convenzione si chiedeva agli Stati di introdurre l’educazione all’affettività nelle scuole: è stata applicata in tutta Europa, eccetto che in Grecia e in Italia. Adesso però le regioni stanno provando a colmare il vuoto lasciato dal parlamento: si parte dal prossimo anno nelle scuole piemontesi. Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Lazio hanno chiesto informazioni sul progetto e presto potrebbero accodarsi.

Il progetto al via in Piemonte interesserà gli studenti del quarto e quinto anno delle superiori. Sarà composto da una serie di lezioni sulla storia e la filosofia intorno al rapporto tra il mondo maschile e femminile, tenute dal professor Ercolani, e lezioni in cui la psicologa Giuliana Mieli fornirà ai ragazzi gli strumenti conoscitivi e sentimentali per avere delle relazioni sane e libere dai pregiudizi. «Portare l’educazione sentimentale nelle scuole permette di fornire ai ragazzi conoscenze e strumenti che gli consentano di diventare degli adulti in grado di vivere un’affettività equilibrata», dice Ercolani. Si prevede che il progetto coinvolgerà circa duemila studenti.

Fuori dai social

Guai però a confondere l’educazione sentimentale con l’educazione sessuale. «L’educazione sessuale è ormai anacronistica, nonostante si discuta da quarant’anni sul suo inserimento nell’offerta formativa: i ragazzi ormai sono quasi più esperti di noi sulla meccanica del sesso», dice Ercolani. Le grandi resistenze che hanno ostacolato l’educazione sessuale nelle scuole non sono però meno forti per quanto riguarda l’educazione ai sentimenti: «Molti genitori sono spaventati dall’idea che i loro figli possano affrontare in classe un argomento che mina alcune convinzioni tradizionali», spiega Ercolani.

Si parlerà molto anche di social network, strumenti di cui gli adolescenti fanno larghissimo uso. E che, di riflesso, hanno un grande effetto sul loro comportamento: entrare in contatto grazie all’ambiente protetto dall’intermediazione dello schermo procura sempre più spesso l’incapacità di stringere rapporti affettivi profondi, troppo diversi dai rapporti fugaci come quelli che si intrattengono in chat.

I ragazzi non sanno più come corteggiare ed entrare in relazione reale con l’altro, diventando aggressivi; le ragazze non riescono più a lanciare i giusti segnali, creando cortocircuiti affettivi.
Spiegare ai più giovani i cambiamenti nelle relazioni tra i sessi, superare culturalmente ogni tipo di violenza di genere, sfatare i pregiudizi sempre esistiti sull’inferiorità della donna, educare al rispetto reciproco: l’educazione sentimentale vuole fornire ai ragazzi gli strumenti per vivere in un ambiente affettivo sano. Puntando sulla prevenzione e restituendo centralità alla scuola, una novità in un contesto in cui istruzione e cultura sono costantemente screditati.

«La violenza di genere è una realtà sommersa che viene spesso alla luce solo quando accade una disgrazia clamorosa. Allora si mobilitano le persone, parlano le grandi star, si fanno manifestazioni: ma queste sono solo reazioni a caldo», conclude il professor Ercolani, «il problema non si risolve così: bisogna aggredire le cause all’origine. Andando nelle aule scolastiche e partendo dai nostri ragazzi».

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Così il porno educa i nostri ragazzi

Così il porno educa i nostri ragazzi
di Stella Pulpo, Il Corriere della sera, 9 agosto 2018

In famiglia si parla poco di sesso e a scuola non si fa abbastanza educazione. Nessuno instaura con gli adolescenti un dialogo aperto sull’argomento. I siti di pornografia prendono il posto di genitori e insegnanti e attraverso il web i più giovani apprendono pratiche sbagliate: come il sesso non protetto, l’approccio brutale e il gusto per l’estremo

HO SCOPERTO come il genere umano perpetra la sua esistenza quando avevo nove anni. Avevo sentito parlare dei preservativi in televisione, non capivo cosa fossero e chiesi chiarimenti a mia madre. Lei mi rispose fornendomi i rudimenti essenziali e mi liberò dal giogo culturale della cicogna o del cavolfiore. Lo chiesi a lei perché non avevo Google, naturalmente. Non esisteva ancora l’onnisciente puericultrice digitale, dalla quale apprendere (senza analisi, senza guida e senza imbarazzo) qualunque cosa. Da allora, per quanto mi dolga ammetterlo, è passato molto tempo e mi sono chiesta: come siamo messi oggi? Chi si occupa dell’educazione sessuale dei giovani italiani?

IL PROFESSOR Emmanuele Jannini, specialista andrologo, docente all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, mi spiega che l’agenzia fondamentale preposta alla sessualità giovanile si chiama YouPorn. D’altra parte, osserva, nell’università italiana non si insegna la sessuologia, nella facoltà di medicina non si parla di sesso e nella facoltà di psicologia raramente si insegna la psicopatologia del comportamento sessuale. Non possiamo lamentarci o stupirci del fatto che i giovani, o chiunque abbia bisogno di capire qualcosa della propria sessualità, si rifugi prevalentemente online. Il dato non è positivo, conclude Jannini, perché la vita sessuale è un aspetto fondamentale della salute generale e in quanto tale deve essere trattata. Silvia Ursoleo, psicoterapeuta e sessuologa di una delle sedi dell’Aied – Associazione per l’Educazione Demografica (una rete di consultori di natura laica presente in tutta Italia da circa 70 anni) –, mi confessa: «Un tempo facevamo educazione sessuale nelle scuole, oggi no, non ci vogliono più». Ne parlo anche con Marcello (che preferisce mantenere il riserbo sul suo cognome), docente di lettere a Milano, uno che ha scelto di insegnare negli istituti tecnici e professionali perché «è lì che c’è più bisogno di noi». Marcello conferma che nella scuola italiana non si fa nulla in termini di educazione sessuale e sentimentale. Gli chiedo se non siano previsti degli incontri con esperti esterni, corsi pomeridiani di Alfabetizzazione Sessuale o di Educazione al Consenso, come succede in molti college anglosassoni. No. Non c’è nessuno che apra una conversazione con i più giovani sul sesso, sulla prevenzione, sulla contraccezione, sul consenso, sulla tolleranza, sull’elaborazione del rifiuto, sui diversi orientamenti sessuali e sui pregiudizi di genere.

IN UN’EPOCA IN CUI TUTTI (in particolar modo i più giovani, come dimostrano le statistiche del sito Pornhub) abbiamo un accesso illimitato alla pornografia, nessuno instaura con i ragazzi un dialogo aperto, schietto e contemporaneo sul sesso. La sola base su cui essi possono sviluppare un immaginario sessuale è la pornografia. Ci sono delle conseguenze? Innanzitutto bisogna chiarire il contesto culturale di riferimento, capire cosa sia il porno oggi e quanto pornificata sia la nostra società. I docenti e ricercatori universitari Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca hanno scritto, a riguardo, un bellissimo saggio intitolato Pornocultura. Analizzano, con lucidità e imparzialità, il sottobosco incandescente e digitale, surrogato e feticista, in cui l’immaginario sessuale si sta dissolvendo e frammentando. «Il web a luci rosse è il luogo dell’educazione sessuale nell’era della pornocultura», dichiara Susca. «Ne consegue una disinibizione generale dell’immaginario e dei costumi sessuali, la diffusione di pratiche del piacere sempre più estreme, voluttuose ed eterodosse». «Il sesso diluisce il suo fascino» continua Attimonelli, «appare meno interessante e la precocità del consumo pornografico segna il trionfo, e al tempo stesso la fine, della pornocultura».

QUANDO CHIEDO loro di spiegarmi, in parole semplici, cosa bisognerebbe fare, mi rispondono che bisognerebbe imparare ad affrontare questi argomenti nelle scuole e nelle famiglie, delineando ai ragazzi altre possibilità di esperire il piacere e chiarendo loro che ci sono modi diversi e alternativi di fare l’amore. Più facile a dirsi che a farsi. Tuttavia, se l’unica fonte da cui i ragazzi attingono le loro conoscenze sul sesso è la pornografia, dobbiamo chiederci quali codici e quali insegnamenti ne traggano. Allo stato attuale, il porno inscena spesso un immaginario punitivo, brutale, vendicativo (revenge-porn), con un punto di vista che è letteralmente maschile. La donna è sempre slut, whore, bitch, chick, doll (di facili costumi) e quasi sempre viene destroyed, banged, fucked in her whatever (distrutta, pestata, usufruita nei vari orifizi, anche in gruppo); oppure viene picked-up, cioè rimorchiata per strada in cambio di qualche banconota; o, in alternativa, molestata e abusata in un fake taxi, in un fake hospital o durante un fake casting. Si badi: non mi trastullo con la terminologia tecnica per sconvolgere e disturbare. Lo faccio perché queste sono le parole che i nostri adolescenti leggono online.

MENTRE I GENITORIripongono le proprie speranze nel parental control, ignorano che i figli il porno non solo lo conoscono già, ma probabilmente lo girano, o lo gireranno a breve, con gli smartphone che hanno regalato loro a Natale. C’è chi coglie il senso del proprio tempo, come Erika Lust, che è una regista erotica indipendente, spagnola, madre di due figlie. Lust rivendica la necessità di un porno nuovo, fondato su una prospettiva di genere equilibrata. Soprattutto, un porno intento a mostrare i principi che sono la base di una sessualità corretta: il rispetto, la connessione, il consenso. Lo scorso febbraio il New York Times ha pubblicato un’inchiesta sul rapporto tra adolescenti e pornografia, secondo la quale i giovani americani pensano che alle ragazze piacciano i tipi dominanti e che per loro qualunque pratica sia ammessa, persino gradita: soffocamenti, capelli tirati, sesso anale, sculacciate, penetrazioni multiple, tracheoscopie falliche, eiaculazioni pirotecniche e molto di più. E se vero è che siamo tutti liberi di fare e guardare quello che ci pare, è anche vero che stiamo parlando di minori. È probabilmente una sfortunata coincidenza, ma in questi anni assistiamo a un crescente ricorso alla chirurgia intima per rifarsi la vulva, che deve (pure quella) conformarsi a uno standard dominante, risultare ideale (per chi, poi?) e presentarsi il più possibile giovane (e depilata) proprio come quella d’una bambina. Spesso, questi interventi comportano la rimozione di parti sensibili del nostro apparato esterno. In sostanza, nell’Occidente evoluto, siamo arrivate ad automutilarci per un fatto estetico.

COSA POSSIAMO FARE, innanzi a tutto ciò? E soprattutto: dobbiamo fare qualcosa? Possiamo aiutare i ragazzi a sviluppare una sessualità sana e corretta? Per carità, magari non è necessario, magari i nuovi giovani sanno già tutto e possiamo serenamente subappaltare alla pornografia qualunque discorso attorno alla sessualità e ai sentimenti. Per chiarirmi le idee, però, consulto la Durex Global Sex Survey del 2017, un’analisi svolta in 36 paesi su un campione di circa 30.000 persone. Da essa emerge che un italiano su quattro non pratica sesso protetto e si affida sistematicamente al coito interrotto. Se in Spagna, Svizzera, Germania, Inghilterra, Francia e Austria il cosiddetto “salto della quaglia” è praticato al massimo dal 9% degli intervistati, in Italia raggiungiamo il 23%. Il segmento più fragile, inutile dirlo, sono i giovani tra i 13 e i 24 anni che, in percentuale, acquistano il minor numero di preservativi. Com’è possibile, mi chiedo. Negli Anni 90, dopo aver pianto davanti a Tom Hanks che moriva di Aids sulle note di Springsteen, la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili era un tema culturalmente rilevante. Nel prime time passavano senza pietà gli spot dei profilattici, urtando il pudore delle famiglie italiane sedute a cena davanti alla tivù. Nel 1997, i condom erano diventati talmente pop che Magnum li inseriva in uno spot per promuovere un gelato.

COS’È ACCADUTO, DOPO? Secondo uno studio del Parlamento Europeo, i corsi di SRE (Sexual and Reproductive Education) sono formalmente previsti in 20 Paesi su 28, secondo modalità che variano da regione a regione (il che significa che spesso non sono de-facto obbligatori, come nel caso dell’Italia). Solo 12 Paesi su 20 includono temi legati al mondo Lgbt e quelli in cui le ingerenze religiose sono più forti, tendono a trattare la materia con un approccio puramente biologico. Nel Regno Unito, tra il 1998 e il 2013, il numero delle gravidanze indesiderate è diminuito del 56% grazie alla National Teenage Pregnancy Strategy. In Estonia, con l’educazione sessuale, tra il 2001 e il 2009, è stato possibile prevenire oltre 4.000 gravidanze, 7.000 casi di trasmissione di malattie sessuali e 2.000 contagi da Hiv. I Paesi più progressisti (che, chi l’avrebbe mai detto, si collocano all’estremo Nord dell’Europa, con la Danimarca in pole position) coinvolgono i Centri di Pianificazione Familiare nell’educazione dei ragazzi e sviluppano programmi educativi di lungo periodo, i cui contenuti sono elaborati a quattro mani dalla politica e dalle Ong. Le lezioni vengono affidate a tutor del settore, gli insegnanti vengono sottoposti a training specifici e i contenuti si sviluppano su linee-guida calibrate in base all’età della classe. Non è un caso che questi paesi vantino il minor numero di gravidanze non pianificate e di contagi da malattie sessualmente trasmissibili. Non è un caso che siano gli stessi Paesi a eccellere in termini di parità di genere e di diritti civili. Educare alla sessualità e ai sentimenti serve, i ragazzi dimostrano un sano appetito per l’argomento e, nonostante le resistenze di certe aree politiche e religiose, nella maggior parte dei paesi i genitori sono favorevoli all’educazione sessuale scolastica dei ragazzi.

SECONDO un trattato dell’Unesco del 2015, il 90% dei genitori cinesi ritiene che i propri figli dovrebbero essere educati alla contraccezione, alla prevenzione e alla gestione delle avance inappropriate. L’88% dei genitori in Russia è dello stesso avviso. Negli Usa i genitori vorrebbero che il “debutto sessuale” dei propri figli fosse meno precoce e che fosse fatto con sicurezza. In Africa, oltre il 60% dei genitori pensa che i giovani tra i 12 e i 14 anni dovrebbero essere educati all’uso dei preservativi. Da questa panoramica globale, appare evidente come l’educazione sessuale sia un’esigenza del nostro tempo. L’approccio culturale e sociale, non esclusivamente scientifico, che aiuta i ragazzi ad acquisire abilità esistenziali, capacità di confronto, dialogo e negoziazione, si è dimostrato talmente efficace che verrebbe da chiedersi: perché in Italia non ce ne occupiamo affatto? Perché non ci interessa aprire una conversazione che abbia il coraggio di parlare anche di stereotipi di genere, di identità digitale e di pornografia (che è la vicaria unica dell’assenza totale di educazione sessuale nelle scuole e nelle famiglie)?

SIA BEN CHIARA una cosa, però: questo discorso non intende colpevolizzare il progresso tecnologico in quanto tale, né condannare la pornografia (di cui sono una consapevole fruitrice). Questo discorso intende unire i punti e portare all’attenzione la necessità di parlare di sesso e di amore, perché il sesso è parte integrante e ragione attiva dell’amore, causa ed effetto, presupposto e conseguenza. Parlare di sesso vuol dire anche, e innanzitutto parlare di amore, di umanità, di consenso, di parità, di libertà, di accettazione. Se non ci credete, pensate alla migliore scopata della vostra vita, e ammettete di averla fatta con una persona che in quel momento amavate molto. Per quanto semplicistico e bucolico possa suonare, provate a rispondere a questa domanda elementare: se non parliamo di amore (e umanità, consenso, parità, libertà e accettazione), come facciamo a resistere all’odio? Se non abbiamo il coraggio di ammettere che c’è un bisogno urgente di dialogare su questi argomenti, allora forse non abbiamo tanto diritto di indignarci, e lamentarci, e scandalizzarci, poi, di questo mondo che va in malora. Non trovate?

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Educazione sentimentale
ovvero, l’amore al tempo di Instagram

con Valentina Brusaferro e Martina Pittarello