Usiamo il telefono per evitare di stare con noi stessi

Usiamo il telefono per evitare di stare con noi stessi
di Alain de Botton

( video in inglese con sottotitoli in italiano)

“Possiamo ottenere molte informazioni dai nostri telefoni, ma questa risorsa ha un effetto collaterale dannoso: consultiamo il telefono anziché noi stessi”, dice Alain de Botton. “Dovremmo passare più tempo con le nostre preoccupazioni, per capirle e non limitarci a subire l’ansia che creano in noi”.
 

1 dicembre 2015
SPEGNETE IL TELEFONO OGNI TANTO, SE NON VOLETE ESSERE SCHIAVI DELLA TECNOLOGIA

“Vi capita mai di sentire suonare il telefono e poi scoprire che non era vero? Vi viene l’ansia quando non siete raggiungibili?”. La tecnologia e i social network sono progettati per creare dipendenza. Ma la nostra attenzione è limitata e se vogliamo un rapporto sano con la tecnologia, ogni tanto dobbiamo spegnere il telefono, spiega Tom Chatfield.

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https://www.internazionale.it/video/2015/12/01/telefono-tecnologia-notifiche

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Educazione sentimentale
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Il mondo vuole delle donne trasparenti

Il mondo vuole delle donne trasparenti
(Laurie Penny, Internazionale, 11 marzo 2018)

Facciamo crescere le ragazze in un tornado d’immagini di bellezza inarrivabile

Attraversiamo una crisi, che sarebbe presa più seriamente se non riguardasse quasi solamente le donne. I ricoveri per disordini alimentari sono quasi raddoppiati in sei anni, mentre genitori e pazienti esprimono il loro strazio nel cercare cure che siano anche solo minimamente adeguate. In tutto il paese, in tutto il mondo, donne e ragazze si autoimpongono di fare la fame, a volte fino a morirne. Che vogliamo fare?

La settimana della consapevolezza dei disturbi alimentari si è appena conclusa, e ancora una volta i giornali hanno finto di chiedersi cosa mai abbia spinto delle sciocche giovani donne ad avviarsi verso un lento suicidio, corredati da sensuali foto di magrissime modelle svestite in posa per l’obiettivo dei fotografi, oltre che da una serie di distratte banalità sul fatto che le ragazze debbano in realtà lavorare sulla loro “immagine corporea” e, se possibile, smettere di leggere tutte queste riviste.

Quando ero un’adolescente anoressica pronta per essere ricoverata, leggevo quest’immondizia per avere suggerimenti su cosa fare. Come ha scritto Hadley Freeman, “il problema dell’anoressia è il suo essere così fotogenica”, l’ideale per l’economia mediatica della misoginia. Buona parte di questo sfoggio di “consapevolezza” ci aiuta a capire i disordini alimentari esattamente quanto, per esempio, un abbonamento a riviste porno come Nuts ci aiuta a capire il sesso: cioè per niente.

È solo l’inizio
Perché le cose stanno peggiorando. Le statistiche del servizio sanitario nazionale britannico (Nhs) mostrano che i ricoveri per disturbi come anoressia e bulimia sono stati 13.885 tra l’aprile 2016 e l’aprile 2017, una cifra che comprende duemila ragazze di meno di 18 anni ricoverate per anoressia grave. L’anoressia è, tra i disturbi mentali, quello con il più alto tasso di mortalità.

Ed è solo l’inizio. Si stima che 1,25 milioni di persone nel Regno Unito abbiano un disordine alimentare. Donne e ragazze sono l’89 per cento di queste persone. Non si tratta solo di una questione di sopravvivenza. Il punto sono gli anni trascorsi torturandosi inutilmente e dolorosamente, sprecando il proprio tempo, la propria energia e rovinandosi la salute. Candida Crewe, nel suo libro autobiografico Eating myself , la definisce “la malattia della donna comune”. Sappiamo che sta accadendo e la cosa non ci turba più di tanto.

Proprio così. Nessun altro sembra disposto a dirlo, quindi lo farò io. Se i disturbi alimentari fossero malattie tipiche degli uomini, invece che delle donne, sarebbero presi più seriamente e si troverebbero cure adatte. Anzi, voglio spingermi oltre: credo che da un certo punto di vista, l’autodeprivazione alimentare e l’ossessione per la magrezza, l’immagine del corpo e l’autocensura femminili siano state normalizzate a tal punto nelle nostra società, che è impossibile non convincersi che queste ragazze abbiano fatto la scelta giusta, sbagliando semplicemente nell’essersi spinte “troppo oltre”.

Diciamo alle ragazze che non hanno il diritto di conquistarsi i loro spazi nel mondo e poi siamo confusi quando smettono di mangiare. Facciamo crescere i nostri figli in una cultura totalmente ossessionata dal controllo dei corpi femminili e poi ci stupiamo quando vogliono riprendersi parte di questo controllo tramite atti privati e violenti di ribellione passiva-aggressiva.

Come ha scritto Naomi Wolf in Il mito della bellezza, “una cultura fissata con la magrezza femminile non rappresenta un’ossessione per la bellezza femminile, bensì per l’obbedienza femminile. La dieta è il più potente sedativo politico della storia delle donne: una popolazione placidamente folle è più facile da gestire”.

Gli aperti e sinceri elogi che le ragazze ottengono per il loro uccidersi lentamente in pubblico è direttamente proporzionale alla quantità di vergogna e stigmatizzazione che si riversa sulle donne perfettamente in salute che si trovano a essere anche solo leggermente sovrappeso.

Ogni singola ora
Non credo sia fuori luogo suggerire che queste cose sono legate. E non parlo per vaghe astrazioni: esistono solidi e fondati dati che provano come le donne siano penalizzate finanziariamente e socialmente quando prendono peso, e premiate quando lo perdono. Molto più di quanto accada agli uomini. Uno studio pubblicato dal Journal of Applied Psychology nell’autunno 2010 mostrava che le donne “molto magre” guadagnano circa 22mila dollari più delle loro omologhe di peso medio, mentre l’essere appena sei chili sovrappeso mina seriamente le possibilità di promozione o la sicurezza dell’impiego di una donna.

Uno studio più recente ha rivelato che solo il 15 per cento dei dirigenti incaricati di un’assunzione, messo di fronte a fotografie di donne di peso diverso, valuterebbe la possibilità di assumere quella più in carne per un ruolo di responsabilità. Statistiche come questa rendono evidente quel che quasi tutte le donne sanno nel loro intimo: che il mondo vuole che siano sempre più piccole, sempre più magre, che il mondo vuole che esse desiderino meno, che valgano meno.

Non accade solo sul posto di lavoro, a meno di essere onesti e di ammettere che alle donne e alle ragazze è richiesto di lavorare nell’immenso stage non pagato dell’accettazione femminile ogni singola ora della loro vita. Sono riluttante a parlare della mia esperienza personale, perché non voglio cadere nella retorica anodina e alienante del sopravvissuto solitario, così frequente quando si parla di disordini alimentari.

Ciononostante, l’anno scorso ho avuto una piccola recidiva, ricadendo nelle cattive abitudini mentre tentavo di riprendere faticosamente il controllo della mia vita, in un momento nel quale su di me si riversava una serie di problemi da primo mondo. I miei amici intimi e la mia famiglia, notando quanto peso avessi perso, erano piuttosto preoccupati.

Tutti gli altri erano felicissimi per me. Mi sentivo debole, fragile e triste, ed ero premiata per questo. Ho passato un po’ di questo tempo frequentando vari uomini e ognuno di loro era ossessionato dalla mia improvvisa magrezza. Uno non smetteva di contare le mie costole. Un altro cercava d’indovinare il mio peso mentre facevamo l’amore, sottostimandolo di nove chili, perché apparentemente gli uomini non sanno nulla su come funzionano i corpi dai quali sono ossessionati.

Adesso mi sento molto meglio, in parte perché ho molto più controllo e potere sulla mia vita di quanto ne avessi quando mi sono ammalata per la prima volta a 15 anni, e poi una cosa che ho notato è che i millennial amano decisamente poco delle costole visibili.

Ho deciso di mettere a frutto questo controllo e di prendermi maggiormente cura di me stessa, anche se in realtà non avrei voluto davvero, poiché di questi tempi ho in realtà un sacco di cose per le quali vivere, un sacco da scrivere, e un sacco di cose da fare che non possono essere fatte quando si è debole, affamata e mezzo morta. Ho smesso di fingere di essere “semplicemente in buona salute”, adottando una visione più olistica di cosa significhi la salute, giusto in tempo per evitare danni a lungo termine. Sono stata fortunata.

Non tutti lo sono altrettanto. Le persone in grave crisi – come me quando ero molto più giovane e molto, molto più malata – hanno bisogno di serie cure ospedaliere. Cure che troppe persone con disturbi alimentari non ottengono mai, o non abbastanza, poiché il nostro sistema per la salute mentale viene sistematicamente distrutto proprio ora che ne abbiamo più bisogno che mai.

Una proposta radicale
Ma come possiamo amare i nostri corpi e prendercene cura quando il resto del mondo fa l’esatto opposto? Certo, insegnare alle donne e alle ragazze ad amare i loro corpi e a prendersene cura è ancora una proposta radicale in una società che provoca e al contempo sfrutta l’odio che proviamo verso noi stessi. Ma i singoli sforzi individuali di provare amore verso noi stessi non bastano quando il problema è strutturale. Il problema è il sessismo.

E la risposta è il gaslighting. Facciamo crescere le ragazze in un tornado d’immagini di bellezza inarrivabile, le sottoponiamo senza sosta a una serie di dimostrazioni con le quali le convinciamo che saranno penalizzate se non avranno un certo aspetto. Lasciamo costantemente intendere che se crescendo diventeranno qualcos’altro non varranno assolutamente niente a meno di non conformarsi a un’idea di bellezza che è, letteralmente, magra al punto da non permettere a un corpo umano di respirare.

Gli facciamo pesare, giorno e notte, il fatto di vivere in un corpo che è femminile o queer. E poi, quando sviluppano disturbi alimentari alziamo le spalle e diciamo: accidenti però, queste ragazzine stupide, perché non si mangiano un panino?

Dire alle donne e alle ragazze del ventunesimo secolo che hanno un problema con la loro immagine del proprio corpo è un po’ come dire alla vittima di un accoltellamento che ha un problema d’emorragia. Sì, lo sappiamo. E sappiamo che è probabilmente colpa nostra, che siamo state deboli e superficiali nel lasciarci accoltellare, e che se fossimo state più forti saremmo state in grado di richiudere le nostre arterie con la semplice forza di volontà, arrestando l’uscita di sangue. Ma nel frattempo sarebbe possibile, se non è chiedervi troppo, aiutarci a tamponare la ferita prima che ce ne andiamo alla ricerca di un po’ di giustizia?

Tutto questo mi rende assolutamente furiosa. È una cosa che avrei trovato difficile dire quando ero prigioniera dell’inferno dei disordini alimentari. Spesso è solo un modo di fare i conti con una rabbia che sembra troppo pericoloso esprimere, e che rivolgiamo verso il nostro corpo, controllando tutta la fame per quelle cose che, ci viene detto, non abbiamo il diritto di volere, come il cibo, una scopata, una briciola di maledetto rispetto, un posto sicuro nel mondo o solo il diritto di sfogarsi un po’.
Che poi sarebbe il motivo per il quale i disordini alimentari spesso colpiscono soprattutto le giovani donne. I ragazzi hanno più probabilità di esprimersi apertamente, per un sacco di motivi. Le ragazze si tengono tutto dentro.

Affanculo tutto questo: sono arrabbiata. Sono arrabbiata con lo stato che si rifiuta di prendersi cura dei giovani di questo paese sotto molti punti di vista, che distrugge qualsiasi speranza di un futuro sicuro, che li esclude dal sistema sanitario e gli nega un alloggio sicuro, che esige che lottino l’uno con l’altro per le briciole rimaste in un pianeta allo sfascio, e poi tagliano i fondi per i servizi pubblici di salute mentale che potrebbero salvarli dall’autodistruzione quando non ce la fanno più.

Sono arrabbiata con questa cultura che ha così paura della carne femminile, della fame femminile, delle donne che vogliono qualsiasi cosa e non solo quello per cui gli dicono di essere grate, che insegna ancora alle ragazzine a farsi più piccole, a tagliarsi a fette, a restringere i loro corpi e umiliare le loro ambizioni finché il loro spazio nel mondo si riduce.

Una questione politica
Sono furiosa per la tranquillità con la quale la società sembra guardare alle ragazze che puniscono e trascurano i loro stessi corpi, anche e soprattutto in nome dell’ossessione per la salute.

Sono arrabbiata per tutto il tempo e tutta l’energia che le ultime e intelligentissime generazioni sembrano ancora sprecare per odiarsi e danneggiare i loro corpi, come facevamo noi solamente in maniera leggermente più efficiente. Non sono arrabbiata con loro. Lo sono con il resto di noi perché non ci prendiamo più cura di loro. E più di tutto sono furiosa per la maniera in cui tutto questo è diventato normale.

Per la settimana della consapevolezza dei disordini alimentari, vorrei chiarire a tutti che i disordini alimentari sono una questione seria, politica e un chiaro segno del mondo incessantemente sessista, omofobo e brutalmente competitivo nel quale obblighiamo a crescere i nostri figli. I ragazzi lo sanno già, ma alcuni adulti sembrano averlo dimenticato.

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CORPI DI BALLO: un consiglio di lettura:

di Francesca Maria Esposito, Mondadori 2019

Età di lettura consigliata: dai 16 anni

“Corpi di ballo”, intervista a Francesca Marzia Esposito
di Annamaria Trevale , 16 ottobre 2019

“Corpi di ballo”, intervista a Francesca Marzia Esposito

Con Corpi di ballo (Mondadori, 2019), arrivato da pochi giorni in libreria, Francesca Marzia Esposito ci racconta la vita di due giovani ballerine, Anita e Miriam, coinquiline che frequentano la stessa accademia di danza, diretta da una ex ballerina più che esigente. Le loro giornate sono tutte uguali, scandite dalle lunghe ore dedicate agli esercizi, dalla lotta con il cibo, visto come un nemico che attenta al raggiungimento di una perfezione corporea assoluta, da pochi e superficiali rapporti col mondo esterno. Nel caldo di un’afosa estate cittadina, occorre prepararsi per un balletto che la direttrice ha intenzione di mettere in scena con la nuova stagione, perciò le prove si fanno ancora più faticose. Anita, in particolare, considera Miriam più brava di lei, sa che la direttrice la predilige e teme di non poter avere un ruolo nella nuova produzione teatrale.

Un giorno, però, Miriam crolla, accasciandosi al suolo priva di sensi, e viene ricoverata d’urgenza in ospedale. Questo avvenimento innesca una crisi profonda in Anita, che inizia a interrogarsi sulle scelte fatte fino a quel momento, ma soprattutto su quali potranno essere quelle future.

Corpi di ballo è un libro insolito, che mostra un “dietro le quinte” molto realistico e a volte piuttosto crudo del mondo della danza. Ne abbiamo parlato con Francesca Marzia Esposito in quest’intervista.

Ha scelto la danza come tema del suo romanzo e mostra di conoscere bene quel mondo. È partita da un’esperienza personale?

La danza mi accompagna da sempre. Ho iniziato da piccola a studiarla, ho fatto per un po’ la ballerina (non classica), e tuttora la insegno. È un mondo che mi appartiene, dentro il quale sono rimasta immersa per molto tempo. Un mondo che mi ha permesso di conoscere ragazze che come me avevano questa passione. Ho visto chi ha mollato, chi è riuscita ad arrivare dove voleva, e chi ha ripiegato sulla via di mezzo. Ho visto come si sono evolute o involute le nostre vite. Dico “nostre” perché c’è un che di corale e universale nella vita di chi danza, che paradossalmente rimanda alla stretta necessità di mantenere una grande concentrazione su se stessi, di ritagliarsi una propria autonomia quasi autistica. Ci si esercita per ore in mezzo agli altri, chiusi in una circoscritta solitudine, che non è solo indole personale, ma proprio elemento essenziale alla riuscita. Tutto questo è stato sicuramente terreno fertile alla storia di Corpi di balloScrivere è abitare una soglia porosa, dove vita e invenzione si contagiano di continuo. Il tentativo è quello di provare a raccontare una verità che mantenga questo magmatico rimando. Le esperienze personali sono elementi primordiali che non solo vengono smontati, ma proprio subiscono una smaterializzazione a livello molecolare. È vita comunque, quello che è accaduto, e quello che immagino sarebbe potuto accadere. Ciò che si scrive non è autobiografico perché rimanda direttamente alla propria esperienza, ma perché è marchiato dalla singola identità, dal modo in cui chi racconta sta al mondo, da come guarda le cose, e da come rievoca e ricrea la realtà.

“Corpi di ballo”, intervista a Francesca Marzia Esposito

Quello della danza è sempre stato descritto come un mondo difficile, fatto di enormi sacrifici fisici e mentali e di grandi rinunce per aspirare a un successo che, nella maggior parte dei casi, è breve ed effimero, ma la sua descrizione lo rende ancora più cupo. È davvero così drammatica la situazione all’interno delle accademie?

Non è un romanzo di denuncia, io ho provato a raccontare la storia di un’eterna seconda. Una ballerina che prima lotta strenuamente per assomigliare alla più brava e infine deve accettare di non esserci riuscita. Un’accettazione che passa anche per un’iniziale sconfitta, ma che porterà alla riappropriazione della propria identità.

Ci sono ballerine che riescono ad avere una vita normale, dei compagni, dei figli. La ricerca della perfezione assoluta vale la rinuncia a tutto il resto?

Chi può dire cosa sia rinuncia, e per cosa valga davvero la pena vivere. È chiaro che la scala valoriale è soggettiva. E poi non credo nemmeno abbia senso parlare di vita normale. La normalità è solo un’anormalità più diffusa. Ognuno sceglie il compromesso con cui fare i conti per ottenere quello che più gli preme. In presenza di una grande passione, di cosiddetto “fuoco sacro”, c’è bisogno di tempo e spazio che per forza di cose verranno sottratti al resto. Ma, ripeto, le rinunce non sono percepite tali quando ci sei dentro, sono solo un aspetto della vita prescelta, che comunque risulta appagante e intensa proprio perché si concentra sul tuo fulcro vitale.

“Corpi di ballo”, intervista a Francesca Marzia Esposito

L’anoressia purtroppo è un fenomeno in continuo aumento, soprattutto tra le ragazze ma ora anche nei maschi, e non certo solo per colpa della disciplina della danza, perché i motori scatenanti possono essere tanti. A suo avviso cosa si potrebbe fare di più per combatterla?

I disturbi dell’alimentazione sono un argomento complesso e sfaccettato. È vero che nel mio romanzo c’è una pressione psicologica che porta alla distorsione della propria immagine, e quindi a utilizzare il cibo come mezzo di alterazione del corpo, ma è anche vero che non è drammatizzato esplicitamente, almeno non era quella la mia intenzione. Io tento di raccontare una normalità, se vuoi distorta e disturbante, ma assolutamente pacifica per le due ballerine.

Come tutte le forme artistiche, anche il balletto è in continua evoluzione e i coreografi contemporanei allestiscono spettacoli diversi rispetto a quelli del passato. Questa evoluzione non potrebbe portare anche a un abbandono dell’immagine della ballerina minuta ed eterea, indiscussa protagonista del balletto classico, e quindi a una visione diversa del corpo femminile?

In realtà non sono nemmeno così minute, le ballerine sono più alte, adesso. Anche nella mia storia, Miriam è sì eterea, ma ha una struttura aggiornata, atletica, flessuosa, e alta rispetto alla norma. Detto questo, è vero che la sperimentazione, o comunque la danza non accademica, cerca e usa corpi diversi che non debbano necessariamente tendere verso l’idea di perfezione. Anzi, a volte è proprio l’anomalia a diventare un punto di forza. Ma credo che le realtà alternative esistano per fare da controcanto al modello dominante.

Non volendo essere lo specchio fedele e universale di tutto lo spettro sensibile della danza, io ho raccontato un dettaglio, una vita, un cuore pulsante, e ho allargato quello.

Nello scrivere Corpi di ballo è stata spinta più dal desiderio di cimentarsi con la narrativa o da quello di farne un libro di denuncia?

Narrativa, io ho scritto una storia, ho attraversato un mondo che conosco e l’ho ripensato a modo mio.

Fonte: https://www.sulromanzo.it/blog/corpi-di-ballo-intervista-a-francesca-marzia-esposito
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Dovremmo essere tutti femministi_ Chimamanda Ngozi Adichie

In Svezia tutti i sedicenni riceveranno una copia del manifesto femminista di Chimamanda Ngozi Adichie

(Internazionale)

“Difficile che a 16 anni io sapessi che cosa significava la parola ‘femminista’”, confessa Chimamanda Ngozi Adichie, la scrittrice nigeriana che ha ricevuto diversi premi per opere come Metà di un sole giallo e Americanah. “Però ero femminista”, aggiunge convinta.

L’ultimo libro di Adichie è Dovremmo essere tutti femministi, un saggio intimo che parla di politica della sessualità, di costruzione del genere e delle esperienze personali dell’autrice in quanto donna africana (è uscito sul numero 1079 di Internazionale). Il testo, un adattamento di una conferenza Ted tenuta da Adichie nel 2013 che nel frattempo ha avuto più di due milioni di visualizzazioni su YouTube, è sia una narrazione sentita sia un appello all’azione femminista al livello globale.

CHIMAMANDA NGOZI ADICHIE A TEDXEUSTON NEL 2013

Questo appello ha ricevuto una reazione attenta almeno in uno stato. In Svezia, dove il libro è uscito il 1 dicembre, diverse organizzazioni hanno unito le forze per distribuirlo a tutti i sedicenni del paese.

La Swedish women’s lobby (Swl), in collaborazione con la casa editrice Albert Bonniers Förlag, con la United Nations association of Sweden e con diversi altri gruppi, il 2 dicembre ha annunciato che farà in modo che una copia gratuita del libro sia distribuita a tutti gli studenti del penultimo anno delle scuole superiori. Finora sono più di centomila i volumi distribuiti, e per il mese prossimo la Swedish women’s lobby progetta di fornire delle schede didattiche agli insegnanti.

Anche se il libro sarà distribuito gratuitamente solo agli adolescenti, la speranza è che tutti i cittadini ne traggano beneficio. Clara Berglund, la presidente della Swl, ha detto: “Avrebbero dovuto leggere un libro come questo i miei compagni di scuola maschi quando avevamo 16 anni”. Il saggio di Adichie, ha aggiunto Berglund, sarà “un regalo per noi e per le generazioni future”.

Alla conferenza stampa organizzata dal gruppo a Stoccolma per annunciare il progetto, Adichie si è rivolta in videoconferenza agli studenti delle scuole superiori svedesi con queste parole:

Per me il femminismo è una questione di giustizia. Sono femminista perché voglio vivere in un mondo più giusto. Sono femminista perché voglio vivere in un mondo in cui nessuno dica mai a una donna che cosa può o non può fare, che cosa deve o non deve fare, solo perché è una donna. Voglio vivere in un mondo in cui gli uomini e le donne siano più felici, in cui non siano vincolati dai ruoli di genere. Voglio vivere in un mondo in cui gli uomini e le donne siano davvero alla pari, e per questo sono femminista.

Naturalmente la Svezia non è l’unico paese che ha esaltato il libro di Adichie come modello di discorso femminista. In questi giorni il saggio è in cima alla classifica di Amazon dei best seller dedicati agli studi di genere e la cantante statunitense Beyoncé ha perfino campionato le parole di Adichie in un brano pop incluso nel suo ultimo album.

(Traduzione di Floriana Pagano)

https://www.internazionale.it/notizie/
2015/12/04/dovremmo-essere-tutti-femministi-chimamanda-ngozi-adichie

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Il tabù del sesso – Presa diretta del 31/01/2016

Il tabù del sesso
(Rai, Presa diretta, 31 gennaio 2016)

Un viaggio tra gli adolescenti italiani e il loro rapporto con la sessualità, il sexting, il bullismo, la cattiva informazione sul sesso, le discriminazioni di genere, per scoprire se esiste in Italia il Tabù del sesso. A Presa Diretta tante storie e testimonianze inedite dei parenti di ragazzi vittime del bullismo e del cyber bullismo, il parere degli esperti, degli psicologi, dei ragazzi e dei genitori.

Perché nel nostro paese non si fa una buona educazione sentimentale e sessuale tra i ragazzi?

Le telecamere di Presa Diretta sono andate anche in Germania e in Olanda, paesi con modelli culturali ed educativi diversi dai nostri. In Germania l’educazione sessuale è materia obbligatoria in tutte le scuole. In Olanda “l’educazione multidisciplinare alla sessualità” comincia a 4 anni, sempre a scuola. Ed è il paese con la più bassa incidenza di gravidanze tra gli adolescenti d’Europa e l’età media più alta del primo rapporto sessuale, 17 anni.

Guarda la puntata:

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